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giovedì 19 ottobre 2017

Salva, fallisci, ricarica, ripeti, ovvero come la narrazione videoludica ha ingigantito la mia paura di sbagliare spingendomi ad un perfezionismo autolesionista.

Mentre scrivo mio figlio ha compiuto un mese e mezzo (circa). Se c'è una cosa che non sopporto dell'essere padre è che a me il mio lavoro serio non ha dato il congedo maternità (esiste il congedo parentale, ma me lo tengo per quando l'ex videogiocatore junior sarà più grandicello). Questo significa che ogni volta che torno a casa dal lavoro (che nel frattempo ho pure cambiato, per il gusto di non farmi mancare niente) trovo che il giovane Sinjin Malvineous Giulio Ex Videogiocatore (non è il suo vero nome) è sempre un po' diverso da quando l'ho salutato la mattina.

È frustrante, specie quando ho promesso a me stesso che sarei stato una figura paterna più presente in modo che mio figlio non si vedesse costretto a crearne una nella sua mente. Eppure mi tocca andarci, per quanto sia fastidioso perdermi un sacco di cose, quindi cerco di far quadrare ogni cosa, a volte riuscendoci, a volte meno, ma cercando di dare la giusta priorità alle cose e cercando di fare le cose al meglio delle mie possibilità.

Vabbè dai, ho fatto del mio meglio.

Il fatto è che, come avrete capito se avete letto i precedenti articoli aventi come etichetta "riflessioni", il vostro ex videogiocatore sin da piccolo ha avuto un rapporto molto conflittuale con il concetto di errore. Prima di tutto, figure ricorrenti nella mia infanzia non facevano altro che suggerirmi che il mondo era un posto ostile in cui tutti cospiravano per il mio male. Come se non bastasse, quando qualcosa mi andava storto, venivo rimproverato perché non ero stato sufficientemente attento, e avevo scoperto il fianco lasciando che il mondo, questo posto pieno di gente che aveva come primo obiettivo la mia infelicità, approfittasse di me.

Però almeno ho imparato qualcosa.
E dunque, qual era l'unica possibile reazione a tutto ciò? Presto detto: smettere di sbagliare. Se divento infallibile, dicevo a me stesso, allora nessuno potrà farmi del male e "La Gente", il grande antagonista per chi al Vecchio Paese viveva in un solipsismo che gli faceva credere di essere il protagonista mancato di qualche grande romanzo, mi rispetterà e starà lontana col suo odio, il suo veleno e le sue frecciate.

Facile, no?

Facilissimo.
Il problema è che tutto questo è geniale, ma solo in teoria. Ma c'è una ragione per cui il mondo là fuori veniva ritenuto stronzo: perché è imprevedibile, comunque la si faccia, qualunque siano le precauzioni che si prende, ci sarà sempre qualche cosa che non andrà come previsto.

(è anche questa la ragione per cui nel project management si parla di "risk mitigation" e non di "risk elimination", ma non mi va di parlare di lavoro ora).

Faccio un esempio calzante: Mentre scrivo ora sono a casa dal lavoro per via di un raffreddore piuttosto fastidioso. Adesso, se da una parte è vero che tutti ricordiamo con nostalgia i giorni in cui si stava a casa da scuola perché ci si ammalava, è anche vero che a me (e ad altri come me) l'ammalarsi era anche sorgente di lunghe rotture di coglioni. Perché se mi sono ammalato è perché (orrore!) ho sudato, non ho saputo gestirmi, non ho applicato alla lettera le istruzioni per l'uso della vita. In una frase: non sono stato in grado di saper stare al mondo.

Eppure, il raffreddore è un virus. Posso non sudare, posso coprirmi, posso fermarmi e crearmi un microclima personale in modo da evitare sbalzi di temperatura, ma se un qualsiasi passante tossisce e mi arriva il virus, c'è poco da fare. Ma era inutile: tornato a casa con la tosse e l'abbassamento di voce, arrivava puntuale il cazziatone. È importante responsabilizzare un bambino, ma farlo sentire colpevole per ogni cosa storta che gli capita (di cui la malattia è solo un esempio), beh, è un po' esagerato.

Specie perché quando le cose storte capitavano alle persone che mi giudicavano (e che ci crediate o no, queste persone non erano i miei genitori, che come ogni bravo genitore avevano come priorità la felicità del loro pargolo), per loro il meccanismo era diverso. Il destino, o satana, o allineamenti stellari vari. Boh.

Cosa fare dunque? Chiudersi in una campana di vetro?

Trasformarsi in un blob invertebrato immortale è un'alternativa percorribile.
Ora, una piccola digressione: riflessione viene da una cosa estremamente intelligente che mi ha detto la signora Ex Videogiocatore (in realtà è pleonastica quest'ultima frase: ogni cosa che mi dice mia moglie è sempre molto intelligente) mentre mi stavo colpevolizzando in maniera esagerata per una svista minore (che peraltro manco ricordo più).

"Caro ex videogiocatore - mi ha detto - il tuo problema è che pensi che ogni errore sia figlio di una tua scelta sbagliata". Che se avete letto fino qui quello che vi ho spiegato finora magari vi sembra un'osservazione ovvia, ma questo post è in realtà un seguito a quella frase. Sta di fatto che mi sono messo a pensarci sopra. D'altra parte come già scrissi sto cercando di vivere la vita in modo tale che se fosse rappresentata in un videogioco, il mio giudizio sarebbe "non è merda", quindi se si può far qualcosa per migliorarsi, anziché regredire ad un'infanzia idealizzata come certi santoni del nostalgismo online, ben venga.

Sta di fatto che è vero. La chiusura di sé in una campana di vetro, in cui io sono l'eroe di me stesso e l'ambiente è completamente deterministico, nel senso che uno più uno fa sempre due, è una cosa irreale e senza senso, per quanto rassicurante. E indovinate un po' che cosa mi aiutava a crearmi questo mondo a cui più o meno nulla poteva sfuggirmi?

Risposta prevedibile, come tutto il resto
I videogiochi, ecco. In particolare, una funzionalità all'interno dell'universo videoludico era quello che veramente scatenava la mia fantasia di potenza. Sto parlando della possibilità di salvare una partita. Per quei pochi che ancora non capissero a cosa mi sto riferendo, quando i giochi iniziarono a diventare più lunghi e soprattutto quando iniziarono ad assumere una struttura sempre più narrativa, gli sviluppatori videro la necessità di introdurre una funzionalità simile a quella di un segnalibro, che permettesse al giocatore di riprendere in seguito una partita dove era stata interrotta. Il gioco viene dunque "conservato" sulla memoria di massa. In inglese, conservato si dice "saved", termine che in italiano è tradotto come "salvato", introducendo una prospettiva quasi messianica in questa pratica.

Pensiamoci su un secondo: stiamo giocando, a un certo punto qualcosa va storto, il protagonista muore. Ma noi possiamo tornare indietro nel tempo e darci un numero infinito di seconde possibilità. Se non è il superpotere che tutti noi vorremmo questo, ragazzi, non so quale altro lo sia, esclusa ovviamente la capacità di fermare il tempo come faceva Zack Morris in Bayside School (Titolo originale: "Saved By the Bell". Un caso?).

Nella continuity Ultimate, Zack rinuncia al superpotere
in cambio dell'amore del preside Belding.
Il rovescio della medaglia è quello che al giorno d'oggi presso i videogiocatori semiprofessionisti è chiamato "Save Scumming" cioè salvare a ogni singolo passo, per paura di perdere tutto quello che si era acquisito fino ad allora. Ammetto di esserci passato pure io, perché, come già ho detto, ero un grandissimo cacasotto.

Cacarsi sotto.
E va bene, si abusa del superpotere di salvare la situazione nel gioco, ma nella vita reale? Nella vita reale, unendo il terrore di sbagliare alla consapevolezza dell'impossibilità di avere quante seconde chance si vuole, ci si paralizza ad ogni passo. Mi capitava, spesso, e talvolta anche ora, di fronte ad una decisione che potrebbe essere vista come piuttosto banale, mi trovo a trasalire a cercare di calcolare tutte le possibili conseguenze di fronte alla mia scelta, in modo da non poter essere accusato di aver fatto la scelta sbagliata e di non essere reso responsabile del mio errore: tutto questo sapendo di non avere una seconda possibilità.

Senza contare quanto sarebbe fico ricaricare la partita e tornare ai momenti in cui potevamo rispondere con la battuta tagliente a qualcuno e non ci veniva in mente nulla. Non a caso, quando mia nonna andava a litigare con qualcuno, prima a casa faceva tutta una serie di prove generali, come a teatro, per ogni possibile combinazione di discorsi. Poi tornava a casa frustrata perché nessuna delle situazioni da lei preventivate si era presentata. E non esisteva la seconda possibilità.

La seconda possibilità.
Fortunatamente, si diventa adulti e certe cose si superano con una buona dose di razionalità. Ma ammetto che l'imprinting resta, anche per la forza di un'abitudine presa in tenera età, e quindi spesso e volentieri capita che ogni scelta abbia sempre questo retrogusto di sbaglio. A tal proposito, una citazione letteraria. Una nota poesia di Robert Frost, The Road Not Taken, finisce così:

I shall be telling this with a sigh 
Somewhere ages and ages hence: 
Two roads diverged in a wood, and I — 
I took the one less traveled by, 
And that has made all the difference.

Che tradotto, vuol dire più o meno la roba seguente:

Lo dirò con un sospiro a anni e anni di distanza: due strade si separavano in un bosco, e io - io ho imboccato quella meno percorsa. E questo ha fatto tutta la differenza. 

Ora, molti giovani che si atteggiano prendono questa poesia a inno dell'anticonformismo: prendo la strada meno percorsa per fare la differenza, io non sono come voi, io ho scelto di. Soprattutto da quando ho lasciato il Vecchio Paese per la seconda volta, sono circondato di gente che è l'opposto di quello che ero io, ovvero trasforma ogni sua cazzata in una scelta di cui è fiero. Uno è trombato sul lavoro, "Ha scelto di intraprendere altre opportunità". Uno viene mollato, "Ho scelto di perseguire la carriera e di posporre ogni velleità di famiglia".

In realtà la poesia vuole dire tutt'altro. Qualsiasi strada tu scelga, ci sarà sempre il rimpianto per l'altra strada, che sicuramente aveva un sacco di belle cose che ti sei perso. Chiaramente Frost non aveva a disposizione l'opzione "Salva gioco".

BYTE Magazine, Febbraio 1981.
Ma alla fine, siamo sicuri che ogni errore sia un fallimento? Quando lasciai il Vecchio Paese per la prima volta, me ne tornai con la coda tra le gambe diversi mesi dopo. La cosa, potete scommetterci, mi fu rinfacciata. Un errore, dunque. Avrei dovuto restare al Vecchio Paese, vicino a chi sapeva come stare al mondo, che avrebbe saputo consigliarmi ed istruirmi al meglio. Nel frattempo, però, sarei rimasto disoccupato o con lavoretti mediocri, impossibilitato a realizzare completamente il presunto genio che avevo dimostrato nei miei anni precedenti da enfant prodige. Visto che in questo articolo sono in vena, altra poesia (stavolta intera).

I miei genitori credevano che sarei stato
grande come Edison o più grande:
perché da bambino costruivo dei palloni
e splendidi aquiloni e giocattoli con gli orologi
e piccole macchine con rotaie per andarci sopra
e telefoni fatti di filo e scatole di latta.

Suonavo la cornetta e dipingevo quadri, 
modellavo in argilla e feci la parte
del cattivo nell'Octoroon,

Ma poi a ventun'anni mi sposai
e dovevo vivere, e così per vivere
imparai il mestiere di fare gli orologi
e tenevo la gioielleria sulla piazza,
pensando, pensando, pensando, pensando,
non agli affari, ma alla macchina
e ai calcoli per poterla costruire.

E tutta Spoon River osservava e attendeva
di vederla funzionare, ma mai funzionò.
E qualche anima gentile pensava che il mio genio 
fosse in qualche modo intralciato dal negozio.

Non era vero. La verità era questa: 
 non avevo genio. 

Walter Simmons, l'orologiaio del Vecchio Paese Spoon River, vive una vita senza errori, perfetta, studiata e pianificata. L'unico errore che sembra aver commesso è stato quello di mettere su famiglia, ma il fatto è che non c'era alcun genio sin dall'inizio che poteva essere danneggiato da una scelta errata. Il vero errore di Walter Simmons era il non aver commesso mai errori da piccolo ed essersi illuso di essere infallibile.

Inutile dire che nei miei anni da sfigato mi sono identificato un casino in Walter Simmons, o meglio nella parte finale, che credevo di essere stato un genietto che non era mai riuscito a realizzarsi perché in fondo, non avevo genio. È la cosiddetta sindrome dell'impostore: la paura che ogni volta che si ha successo sia stato tutto merito di una tremenda botta di culo e la reputazione che ci si porta addosso sia appunto una grandissima bugia.

In realtà, se considero il mio grande errore di lasciare il Vecchio Paese e tornarci pochi mesi dopo con le pive nel sacco come un figlio di papà qualsiasi che molla tutto per fare il lavapiatti a Londra o in Australia, questo grande errore mi ha fatto capire che quello che era stato da sempre il mio sogno (indovinate un po': aveva a che fare coi videogiochi) non era proprio fatto per me, e mi convinse che d'ora in avanti avrei soltanto cercato lavori seri. E di lavoro serio in lavoro serio, rinunciando alle tentazioni (e ce ne sono state) di tentare il cosiddetto "lavoro creativo", sono finito in un altro posto molto lontano dal Vecchio Paese, posto in cui ho conosciuto mia moglie.

Insomma, si può dire che senza questo errore alla base, le condizioni perché mio figlio nascesse non si sarebbero venute a creare.

Che detto così pare pure molto brutto.
Dunque? Mi piacerebbe poter dire che questa breve riflessione mi ha reso completamente una persona diversa, pronta ad accettare la vita come viene, manco fossi un maestro di meditazione Vipassanā. No, purtroppo. Il fascino del perfezionismo autolesionista è sempre dietro l'angolo e le brutte abitudini sono durissime a morire. Quello che posso provare a fare è cercare di cacciare da me lo spirito della Gente del Vecchio Paese, quello che mi giudica con disprezzo per ogni cosa che non è andata secondo i piani (inutile dire che tutti vanno matti per i piani ben riusciti).

D'altra parte, non è che devo essere io a salvare il mondo.

...metaforicamente parlando, s'intende.
(P.S. A proposito dell'impossibilità di salvare il mondo da soli, magari potete leggere il blog della signora Ex Videogiocatore e arricchirvi interiormente molto più di quanto lo possiate fare col mio blog.)

4 commenti:

  1. Molto interessante, molto interessante. A partire dalle premesse: hai proprio ragione su raffreddori e malanni del genere. Qualsiasi buon dottore te lo spiega: anche il raffreddore è un virus, lo prendi se sei in condizioni in cui le tue difese immunitarie si abbassano. Certo sì, se tu stai fuori in maniche corte con 10 gradi, c'è possibilità che ti ammali perché il tuo corpo, nello sforzarsi per adattarsi alla temperatura, fa abbassare le difese immunitarie. Ma non è assolutamente vero che una sudata o il colpo d'aria ammalano, tutt'altro.

    Venendo al concetto generale del tuo post, sfondi una porta aperta. Anche io fin da piccolo ho avuto la percezione dell'errore come una cosa fatale, da evitare. Come a scuola: un errore poteva portarti a un 10-, non andava bene. Per evitare gli errori quindi c'è la convinzione di dover pianificare tutto. Perché l'errore non è conseguenza di una scelta sbagliata; è conseguenza magari di un imprevisto che non si è riusciti a gestire bene. La pianificazione 'estrema', male del quale evidentemente sono afflitto, porta a fare nella vita scelte sempre conservative, quando nella vita invece andrebbe bene provare, fare nuove esperienze. Allora sì, non essendoci possibilità di pianificazione, c'è l'errore; ma a quel punto l'errore ci darà esperienza. Paradossalmente, più proviamo e più sbagliamo, più potremo sapere poi cosa fare e quindi pianificare sempre meglio.

    Comunque la storia di Simmons è anche la mia: da piccolo ero creduto un genio; sapevo cantare, suonavo il pianforte, andavo benissimo a scuola.

    In realtà non ero un genio: ero magari portato più per l'attività intellettuale ed ero un disastro per l'attività fisica.

    Ma il genio era purtroppo un'altra cosa.

    Purtroppo l'ho capito che non fossi un genio, ma il fatto che avevo disatteso le aspettative, fu cosa che mi tolse 10 anni di vita praticamente...

    ps grazie per la citazione di Spoon River :)

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    1. il fatto è che quasi nessuno è un genio e le aspettative spesso sono gonfiate da altre persone. Sono stato fortunato perché i miei genitori non mi hanno usato come sostituto di eventuali velleità di primeggiare. Un po' come certi padri che litigano con l'allenatore perché non fa giocare i figli titolari, o come certe madri che minacciano di denunciare i maestri perché danno voti brutti al genietto di casa. Le aspettative su di me me le ero fatte principalmente io.

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  2. Rivedrei il concetto di "breve" per la riflessione XD
    A parte gli scherzi, il post mi è piaciuto moltissimo.
    Mi ha anche colpito. Perché?
    Perché io sono l'opposto. Molto istintivo, sono tra quei videogiocatori di vita che non salvano spesso, perché amano il brivido.
    Spesso devo rifare tutto da zero, lo so e lo metto in conto.
    Oddio, mi dispiace che ti cazziavano anche per un raffreddore: no, non bisogna dare la colpa a noi stessi ma è pur vero che bisogna capire le conseguenze dei nostri errori.

    Moz-

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    1. Beh, la storia del raffreddore era un esempio. Non posso certo dire di avere subito traumi dai miei. Altre figure molto presenti, invece, mi polverizzavano i maroni con la loro visione del mondo ostile in cui se non ero attento gli altri mi avrebbero mangiato in un sol boccone.

      Comunque, ammiro molto il tuo approccio "ironman". A me riesce solo quando ho un piano B in saccoccia, altrimenti piedi di piombo perché il pavimento è fatto di uova.

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