giovedì 10 agosto 2017

Punteggi, prestigio e padri, ovvero del perché la competitività è sana nella giusta misura e non oltre

Occhio: questo post non è allegro. Sentitevi liberi di non leggerlo. Sono già venuto meno a una mia promessa su questo blog, quella di parlarvi degli sparatutto 3d in prima persona, e nonostante ciò vi ho parlato di Wolfenstein 3D. E vabbeh. Però c'è una promessa che voglio mantenere: quella di sbattermene completamente dei punteggi, dei record, degli high score eccetera. Anche in sala giochi non ho mai avuto particolare interesse nel punteggio, forse perché ho iniziato a giocare in quel periodo in cui il videogioco era già un mezzo che raccontava una storia, e per me la vera soddisfazione era "finire" il gioco, non mettere le mie iniziali in cima alla tabella dei punteggi. 

Stimati, vez.

Perché questo disinteresse? Possiamo identificare il punteggio come un misuratore numerico della qualità del videogiocatore. Ma è una cosa astratta: un esercizio di ipsazione virtuale, e almeno da quel punto di vista, l'autostimolazione mi ha sempre interessato poco. Già le cose cambiavano quando il punteggio si traduceva in soldi virtuali con cui acquistare nuove armi per l'astronavina, o cose del genere. Ma la competitività fine a se stessa lascia il tempo che trova: insomma, sono sempre stato un praticone. Forse è per questo che ho fatto ingegneria e non matematica pura.

Raptor - Call of the Shadows. È sufficiente mettere un simbolo del dollaro davanti al punteggio e subito i bonus diventano tutti più appetibili.
Ora: piccola digressione. Mentre sto scrivendo (state leggendo questo articolo qualche giorno dopo) sto metabolizzando una roba orribile. Due persone che conoscevo, non correlate tra loro, sono morte in maniera una più assurda dell'altra, lo stesso giorno. Una persona (che avevo conosciuto bene, era in classe con me alle elementari e alle medie) si è suicidata gettandosi sotto un treno. L'altra persona (che conoscevo poco, amico di amici) è morta in un tragico caso di omicidio-suicidio (ne avrete sentito parlare ai telegiornali, credo). Questo, ripeto, lo stesso giorno. Mi sono così trovato nella paradossale situazione di stare in due gruppi Whatsapp che dicono le stesse cose per due eventi completamente disgiunti.

Mi sono anche trovato nella spiacevole situazione di assistere a un'escalation di pietismo non necessario, nel senso che ho visto le persone che facevano a gara a chi diceva il "mi dispiace" più poetico, più arzigogolato, più strappalacrime di tutti. In particolare, nel gruppo degli ex compagni di classe, mi è sembrato di rivivere il giorno successivo alla strage del Salvemini, in cui in classe si faceva a gara a chi faceva il pensierino più melodrammatico. Si chiama "Virtue signalling", ovvero il meccanismo simile ai richiami di accoppiamento animali che fa sì che si scateni una gara in cui si cerca di mostrare la propria bontà, empatia, insomma la superiorità morale. È un piccolo palcoscenico.

Per carità: ognuno elabora il dolore come può, anche mediante un morboso voyeurismo nei confronti delle disgrazie. Nel mio caso, io vedo che scrivere mi aiuta, riflettendo su cose come queste e (lo scriverò in grassetto affinché non mi si rompano i coglioni) questa riflessione non vuole affatto essere una diagnosi delle cause di ciò che è successo alle due persone morte oggi.

Di fatto ho provato a pensare al caso in cui il suicidio è conseguenza di una cultura malsana della competitività. In casi di omicidio-suicidio, è facile ricondursi alla giustificazione puramente economica tirando in ballo una crisi economica che sembra andare avanti da sempre. Oltre che ad essere facile, è anche una comoda auto-assoluzione per i propri obiettivi mancati, non importa quanto essi siano ambiziosi: "c'è crisi, pure la gente che pareva ricca si suicida, e quindi ci sta che a 30 anni non sia pieno di soldi fino al sedere. Stato bastardo che non mi esce la grana e la da tutta agli immigrati!" (Non parliamo di quelle persone che commentano le notizie aggrappandosi alla tragedia per il gusto di fare polemiche, non meritano l'attenzione di nessuno).

Ho provato anche a urlare "rosebud" fuori dal municipio, ma neanche così niente soldi

La semplificazione è comoda, ma come una compressione "lossy", come ad esempio gli MP3. Elimina frequenze sonore all'apparenza non ascoltabili, ma per gli amanti dell'alta fedeltà il suono già non è più lo stesso. Allo stesso modo, ogni semplificazione non tiene conto che dietro ogni gesto folle c'è una storia complicatissima. Inevitabilmente, in questa riflessione ci sarà una semplificazione, e non tutti potranno essere d'accordo, ma capisco e lo accetto. In questi due eventi orribili, ci vedo la storia di due generazioni: prima c'è stata la generazione del boom economico, che dopo la guerra e la miseria si è trovata improvvisamente ricca. I nati in quella generazione hanno avuto un divario enorme (in positivo, ovviamente) di possibilità rispetto ai loro genitori. E quindi potevano aspirare ad una vita migliore rispetto ai genitori. Sapete che vi dico? Rischio di attorcigliarmi nel discorso: facciamo una lista puntata, che magari mi seguite meglio.

  • Generazione dei miei nonni: Nati sotto il fascismo, cresciuti durante la guerra, hanno vissuto prima la miseria e poi il boom economico: il loro bisogno è di sopravvivenza, sicurezza, e stabilità.
  • Generazione dei miei genitori: Nati durante il boom economico, cresciuti tra il boom economico e gli anni di piombo, tensioni sociali etc. e poi di nuovo boom degli anni 80. Il loro bisogno è, date per scontate la sopravvivenza e la stabilità, è il posizionamento sociale e il benessere che i loro genitori potevano solo sognarsi.
  • Mia generazione: Nati nel piccolo boom degli anni 80, poi crisi nei primi anni 90, ripresina e di nuovo crisi negli anni 2000. Globalizzazione, terrorismo, età di internet. Il nostro bisogno qual è stato? Dato per scontato il lavoro sicuro e il benessere, resta il bisogno di spiccare, di raggiungere gli obiettivi che i nostri genitori potevano solo sognarsi. Il lavoro non deve più essere solo sicuro, ma prestigioso e perché no, pure creativo, che ci dia quel senso di riconoscimento di cui noi abbiamo così disperatamente bisogno. Solo che non sempre era possibile continuare a crescere. Al lavoro dignitoso e sicuro per tutti, volendo, ci si potrebbe pure arrivare. Al prestigio no: sennò non sarebbe prestigio.
Noi siamo cresciuti con Jovanotti che pubblicizza il Nintendo,
i nostri figli cresceranno con Fedez che pubblicizza la PSVR?
La dice lunga il numero di persone della mia generazione che ha fatto l'università. Tanti, direi pure troppi. Perché quando hai il benessere e la sicurezza, per tuo figlio il benessere e la sicurezza non sono abbastanza, bisogna anche spiccare. Bisogna essere migliori degli altri. Partono i confronti. Non basta più una vita dignitosa. Il figlio diventa un investimento a rendimento sempre più alto, ma più si innalza il rendimento, più si innalza il rischio.

E quindi abbiamo genitori che minacciano di menare l'allenatore della squadra di calcio in cui gioca il figlio perché non lo fanno giocare, abbiamo genitori che protestano con gli insegnanti perché il figlio ha preso un brutto voto. Sembra stupido, ma in fondo è naturale: si protegge l'investimento come si può. Nessuno vuole dei tarli nel bastone della propria vecchiaia, ma se ci si appoggia al bastone si esercita pressione, e con troppa pressione questo prima o poi si spezza.

Non so cosa sia passato nella testa della mia ex compagna di classe quando ha deciso di buttarsi sotto un treno. Quello che so è che sin da piccola, lei era stata etichettata come la bambina perfetta. Educata, brava a scuola, disciplinata, intelligente, caritatevole, bella, buona, tutto. Ma tutto sul serio. Tipo che se fosse stato un gioco di ruolo avrebbe avuto le statistiche tutte al massimo.

Poteva un simulatore di padre con sottotoni incestuosi provenire
da qualsiasi stato che non fosse il Giappone? Ovviamente no.
Beh, non so a voi, ma se fin da piccolo mi vendono come qualcosa, io inconsciamente faccio di tutto per essere all'altezza di quel qualcosa. Lei fin da piccola era stata etichettata come perfetta. Da lì si può solo peggiorare. E quindi si passa tutta la vita a cercare di confermare un'immagine di sé che ora la morte, con le pelose e strappalacrime elegie di chi non se la cagava da almeno quattro lustri, fissa in un'immagine di perfezione irripetibile.
Intendiamoci, non sto diagnosticando le ragioni, ma quello di cui sono certo è che inseguire per tutta l'infanzia una figura inesistente non è una buona base di partenza per una vita serena.

Parlo un secondo dell'altra persona, la vittima della follia del padre, pur non conoscendola bene. Quello che mi sembra è che abbia subito una dinamica analoga. Riassumo, semplificando (è inevitabile, e me ne scuso) : famiglia un tempo ricca e nobile, decaduta, indebitata dopo una serie di sfighe. Lasciamo perdere le considerazioni sulla vera o presunta poca etica dei creditori, discorsi che non hanno senso in questa sede.

Quello che mi ha fatto pensare è stato che, stando alle dichiarazioni del fratello dell'omicida-suicida, l'uomo che ha sparato a moglie e figlio, pur schiacciato dai debiti, ha preferito non chiedere aiuto, per via di un orgoglio condizionato da un "Cosa dirà la gente?" degno del lato peggiore del Vecchio Paese. La cosa si è portata all'estremo al punto di fare una strage piuttosto che cedere i beni all'ufficiale giudiziario per il pignoramento.

È "La Gente" il grande nemico, che ci guarda male, ci giudica per ogni nostro fallimento ed è pronta a saltarci addosso ad ogni segno di debolezza. L'ho già scritto altrove, lo so, concedetemi un po' di coerenza.

Il fatto è che volendo cercare un filo conduttore di tutto questo, cercando un vizio capitale come se fosse una virtù di Ultima, quello sarebbe l'invidia.

e io che avevo solo una scheda grafica con 3dfx Voodoo 1 stavo a rosicà
L'invidia è qualcosa che è impossibile non avere, vediamo le altre persone che ci circondano, vediamo quello che sono e noi non siamo, quello che hanno e noi non abbiamo, e pensiamo che vorremmo anche noi (e attenzione: questo vale anche per persone immaginarie come il sé ideale dipinto dagli altri). E questa è l'invidia, che di per sé non è un vizio. Quando, anziché usare l'invidia per stimolarci a migliorare noi stessi, ribaltiamo la prospettiva augurando il male agli altri, allora ecco a voi il Vecchio Paese e tutti i Vecchi Paesi di questo mondo. Ecco "La Gente", ecco l'odio nei confronti de "La Gente".

Con il nostro bisogno di eccellere e gareggiare ogni cosa, sin da piccolo, era una competizione. Dai voti a scuola, all'altezza, al numero di stanze nella casa, al numero di Micromachines che avevamo.

Piccola storiella che ci riconduce al tema iniziale: siamo alle elementari e distribuisco uno dei giochi che mi aveva passato il mio padrino del battesimo (il Colonnello): si tratta il seguito di Grand Prix Circuit, ma con le moto al posto della Formula 1. Sto parlando di The Cycles - International Grand Prix Racing, che prima o poi recensirò. Negli high score c'era il nome di un amico del figlio del Colonnello, che per coincidenza era la un mio omonimo (per la precisione, era omonimo della metà del mio nome con cui sono universalmente chiamato dai miei amici). Qualche settimana più tardi, si parlava (guarda caso) di computer, e io dico che fra tutti sono quello che di computer ne sa di più. Era vero: già alle elementari pasticciavo col BASIC, e gli altri non andavano oltre alla shell di MS-DOS per lanciare l'eseguibile del gioco del giorno. La risposta fu (con la mano a conchetta attorno alla bocca a mò di megafono) : "Fai poco il fenomeno, guarda che tu nelle moto fai pena!" Si riferiva al mio semi-omonimo nella high score.

E si riferiva pure al mio omonimo, io manco ci arrivavo alla high score.
(E se lo avessi fatto, avrei messo come nome Andreotti)
Sempre così. Ogni occasione era un pretesto per smontarsi a vicenda. Fomentati dalla generazione precedente, e stimolato dal vuoto creato dalla non-concorrenzialità dei giochi che ci proponevano a scuola (Io ricordo il gioco dell'elastico, mia moglie va ancora in bestia a pensare alla sua amica proto-hipster che si esaltava con il gioco del gatto mammone), arrivavamo a livelli di mutua distruzione assicurata che ci portava ad avere terrore dell'idea di fallimento.
Un terrore che mi è rimasto addosso fino a non moltissimi anni fa, quando sono diventato indipendente e il distacco dalla mia famiglia ha fatto sì che parte delle mie energie andasse al mio automantenimento (che non era più qualcosa di scontato), e il semplice fatto che riuscissi ad essere indipendente teneva lontana l'idea del fallimento. Gli obiettivi diventavano dunque più ragionevoli, e dunque a che serve fare più punti degli altri? Certo, c'era chi faceva più punti di me e questo mi causava invidia, ma la prospettiva diventava sempre più sana: guardavo al mio risultato, non al confronto dei punteggi.

Monkey Island 2 - 800 punti su 800, ma non era possibile fare altrimenti.

Il fatto è che, per ragioni che avrete letto nell'altro articolo, visto l'ambiente in cui sono cresciuto io ho invidiato tanto. Ho invidiato degli amici, le cui famiglie sembravano quelle del Mulino Bianco, quando nelle high score dei giochi che mi passavano vedevo il nome dei loro padri, o quando attaccavano il Mega Drive alla tv della casa al mare e il papà che si atteggiava a giovane passava, si attaccava a Sonic (su questo forse ci tornerò) e faceva meglio di me.

Quando io cercavo di giocare al computer assieme a mio padre, lui era così stanco per il lavoro che faceva (si alzava alle 4 di mattina e prima delle 7 di sera non tornava) che si addormentava sulla sedia. Ho provato schadenfreude venendo a sapere, anni dopo, che certe situazioni non erano così idilliache come sembravano (normalissimo: la situazione idilliaca non esiste), e non avete idea di quanto mi pesi ammetterlo, e di quanto me ne vergogni. Ma non mi giustificherò con l'odiato proverbio "mal comune mezzo gaudio", né cercherò di piegare la mia anima per eliminare ogni invidia ed ogni sentimento negativo, essere perfetto come appariva la mia ex compagna di classe.

Quello che posso impegnarmi a fare, invece, è a vivere la vita come se fosse un videogioco a cui non ho dato "merda", ovvero qualcosa che, indipendentemente da grafica e fronzoli vari, mi ha fatto stare bene senza farmi irritare troppo. Proposta destinata al fallimento, diranno alcuni. Vorrà dire che ci riproverò.

8 commenti:

  1. Eh, gia.
    A proposito di "Gente", di Società, la buonanima di Robert Pirsig ipotizzava che [omissis] e che, nella scala dei valori, solo una cosa è più importante della Società (e quindi ha il diritto di divellerla): una Idea.

    Quindi possiamo pensare che un giorno sorgerà un'Idea che spazzerà l'ambizione alla perfezione dalla Società.

    O forse quest'ambizione non è una caratteristica della Società, bensì di un sottoinsieme di individui, che talvolta arrivano a livelli patologici.
    Boh.

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    1. Grazie del commento. Non sono sicuro di poterti rispondere con certezza, ma la mia sensazione è che quest'ambizione alla perfezione mista al concetto di realizzazione personale come gioco a somma zero (se io vinco gli altri devono per forza perdere) sia la caratteristica di un sottoinsieme di individui posseduti da quello che io chiamo lo Spirito del Vecchio Paese. Purtroppo non so il tedesco, a spanne mi viene da chiamarlo "Dorfaltengeist", ma dovrei chiedere alla signora Ex Videogiocatore se è corretto.

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  2. Articolo introspettivo molto interessante. Ci sarebbe da aggiungere l'aneddoto di chi emigra in Australia/Inghilterra con la scusa di imparare l'inglese e perché "c'è crisi" (come se in altri paesi fosse facile arricchirsi) solo per postare foto fighe su Facebook, ottenere più like e fingere di fare la bella vita in questi posti. Ovviamente si rientra a casa dopo un mese con la coda tra le gambe dopo avere speso i soldi dei genitori. Ciò che "la gente" non ha ancora capito è che il successo lo si può trovare solo dentro se stessi: se sei un fallito (e chi fa queste mosse lo è), lo sarai per sempre ed ovunque.

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    1. Premesso che non sarei così tranchant nel dichiarare una persona "un fallito" o meno, sono d'accordo che lo spirito del Vecchio Paese sopravvive, e anzi si rinforza, se viene applicato al villaggio globale. Uno pensa che girare il mondo ti faccia diventare una persona migliore, non credo sia una condizione necessaria. Di certo non è una condizione sufficiente. È un po' come dire che il tempo non ci fa più saggi, ma soltanto più vecchi. Il tempo da solo non basta, ma bisogna fare un po' di lavoro dentro di sé, come dici giustamente.

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  3. L'ho già detto che preferisco questi articoli rispetto alle recensioni? Sì, ma meglio ribadirlo.
    Condivido l'analisi che hai fatto e credo che uno dei grossi problemi sia il fatto che le convenzioni sociali imposte dall'esterno stanno diventando tra le altre cose anacronistiche e contrastano con la ricerca ed il raggiungimento della soddisfazione personale. Ognuno è diverso e può non ritrovarsi nelle convenzioni imposte, ma se queste sono spesso l'unico metro di giudizio della vita di qualcuno allora nascono problemi. Anche il fatto di considerare la vita un gioco a somma zero contribuisce a questo livore generalizzato e paradossalmente si gode di più a vedere le disgrazie degli altri piuttosto che gioire dei propri traguardi, anche se piccoli.

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    1. E la cosa più ridicola è che, per quanto anacronistiche siano, queste imposizioni e più in generale questa visione del mondo come gioco a somma zero, se io godo tu soffri e viceversa viaggiano su piattaforme tutt'altro che anacronistiche. Internet è nata come piattaforma per condividere la conoscenza: possibile che per numerose persone l'unico uso che se ne può fare è scrivere "CIAONE POVERY" ? Boh.

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  4. E pure io "che avevo solo una scheda grafica con 3dfx Voodoo 1 stavo a rosicà". Ma non sono generazione Ottanta, ma la fine degli anni Sessanta. Mettiamola così: il Top Score è chiaramente una metafora, però un paio di considerazioni le butto giù, visto che sono fresco di argomento pubblicato, "vantandomi" pure di un paio di piccole soddisfazioni. Inserire le tre iniziali nel "tabellone" degli "High Scores" era all'inizio l'unico modo per gratificare l'utente (non esistenva una vera fine), più in là il gioco venne introdotta una "fine" alquanto posticcia (quanti ne ho visti di finali con una schermata e una scritta "THE END"...). Questo negli arcade che era il modo più diffuso di giocare (le prime avventure testuali erano molto poco diffuse).
    Con l'avvento degli action adventure, RPG , avvventure grafiche e un generale ampliamento dei generi video-ludici, il punteggio è andato perdendo significato.
    Non ritengo perciò che l'assunto "il punteggio come un misuratore numerico della qualità del videogiocatore" sia il migliore punto da cui iniziare un discorso che per il resto mi trova concorde.
    Il rampantismo, la rincorsa al "top"(management o altro a piacere), l'individualismo (a scapito del senso di comunità) hanno esaltato la paura di non farcela ovvero l'idea del "perdente"/"essere il migliore". Da qui l'affannosa ricerca di dimostrare prima agli altri di essere "il migliore", per poi potere convincere se stessi di qualcosa che intimamente si sa essere una bugia.
    Si ha paura di riconoscersi nel "looser" che si ritrova spesso nella (sotto-)cultura cinematografica statunitense (a volte in modo critico, a volte con una sorta di mitizzazione-evangelizzazione).
    In un periodo in cui la precarietà è spacciata come "flessibilità", il fallimento delle proprie aspirazioni è tangibile e frequente. L'"accontentarsi" diventa un leit motiv e la frustrazione che ne deriva porta ad auto-avvolgersi in ciò che hai descritto bene, la ricerca dell'alibi, lo scarico di responsabilità, l'accanimento sul più debole. Una lotta tra poveri, si sarebbe detto in passato.

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    1. Se posso anche integrare al concetto di "lotta fra poveri", l'accontentarsi è anche figlio di un sovraccarico di aspettative che ci siamo fatti in seguito al boom economico, prima quello grande del miracolo italiano, e poi quello piccoo dei primi anni Ottanta con la fine degli anni di piombo. Il fatto che tutti cerchino di elevarsi al di sopra della media non fa che alzare la media su cui ci si deve elevare, tanto poi alla fine un pezzo di torta c'è per tutti, giusto? Sbagliato, e dall'inevitabile carenza di torta arriva quella che Raffaele Alberto Ventura chiama "La classe disagiata" e Tim Urban chiama "G.Y.P.S.Y." (Generation Y Protagonist and Special Yuppies) https://waitbutwhy.com/2013/09/why-generation-y-yuppies-are-unhappy.html troppo poveri per essere felici, troppo ricchi per non avere nulla da perdere. C'è chi la dà vinta al disagio, c'è chi va sullo scarico di responsabilità cercando rifugio nell'infanzia idealizzata, ricostruendola in maniera artefatta, dando vita quel nostalgismo che tanto mi piace schifare e che non fa altro che creare altro disagio, checché ne dicano quelli che dichiarano solo di cercare le cose che fanno stare bene.

      Sono certo che anche la mia ex compagna di classe che si è gettata sotto un treno volesse, a modo suo, cercare di stare bene andandosene da un mondo a cui non sentiva più di appartenere.

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Sicuro di aver letto bene il post? Prima di postare, rileggi.

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